La poetica e la tecnica.
Da testo critico di Giorgio Seveso
“Ho qui sotto gli occhi diversi album di riproduzioni delle opere di Gentile, accuratamente datate, e vedo che le prime partono addirittura dalla metà degli anni ’50 per giungere, con le ultime, ai giorni nostri. Dunque, dal ’55 al ’95 il conto è presto fatto: sono quarant’anni tondi di pittura che lentamente faccio trascorrere tra le dita. È un modo, certo incompleto ma straordinariamente efficace, per cogliere al volo i tratti di fondo dei mutamenti e delle maturazioni che, come onde interiori, percorrono e connotano il senso del lavoro di un pittore.
Tutto un percorso, dalle prime tele sulle quali non c’è proprio da sbagliarsi, immerse come sono con appassionata identificazione nel clima generoso ma un po’ arruffato della pittura realista di allora, passando poi, per immagini, nelle quali si vedono affermarsi e progressivamente trasformarsi gli stilemi di gusto pop, con quella caratteristica di pittura fumettisticamente semplice e descrittiva, per giungere infine, ad una graduale sintesi dei quadri, ad una visione più essenziale e suggestivamente lirica.
C’è un massimo comune denominatore che diventa sintesi tra le varie trasformazioni dell’artista: il segno. Insomma, la sua personalità, sempre riconoscibile che, al di là delle trasformazioni e delle evoluzioni, reca in ogni occasione l’identità dell’autore, la sua precisa ed individuale “calligrafia” poetica ed emozionale.

In Domenico Gentile gli elementi assumono una connotazione musicale.
“Musica, una sensazione che proviene intensa allo sguardo delle sue opere, un fraseggio sostantivo-verbo, ricerca pittorica, essenziale ricerca del segno”
Paolo Bertelli

Quasi per incantamento, quella di Domenico è una magica contemplazione delle asprezze della vita e delle cose, un’atmosfera limpida e pura in cui si respirano da sempre le sue geometrie, fatte di scene urbane e d’oggetti, tracce recuperate come dal ricordo effimero e labile di visioni insieme antiche e contemporanee. Soprattutto quando, il tema di fondo è il lavoro, inteso, come lo spazio delle alienazioni tra gasometri e ciminiere, tra asfalti e supermarket.
È un clima di nitida percezione lirica, suggestivo, misterioso e melanconico, che effettivamente potrebbe in qualche caso richiamare il senso universalmente accreditato del naif, ma le cose si fermano qui. Direi infatti che Gentile è semplicemente sé stesso e sarebbe ben arduo, se non si vuole restare superficiali, attribuirgli ascendenze ed appartenenze stilistiche precise. Questa sua vocazione lirica ha difatti una singolare valenza simbolica, soprattutto quando si manifesta dando forma a materiali emozionali curiosamente “astratti”, che si direbbero ispirati ad una costante memoria di Fernand Léger: derivazione capace di rintracciare relazioni tra il geometrismo più decorativo e le forme più sofisticate della ricerca figurativa moderna. È curioso, infatti, il rapporto che l’artista riesce a stabilire tra garbata citazione “realista”, da una parte, ed esempi particolarmente avanzati d’avanguardia, dall’altra.
Come quando, con una sorta di intrigante istinto di sintesi, riesce a rivelare e ad annodare qualche comune filo segreto addirittura con le forme futuristiche di un Depero o di un Boccioni, cogliendovi richiami che divengono sorprendenti per gli esiti cui danno luogo. Ecco perché (ma certo molte altre cose si dovrebbero dire) in buona sostanza considero Gentile un artista (e poeta) completo, capace si direbbe di rinnovarsi costantemente pur conservando sempre una sua precisa coerenza interiore, una sua qualità lirica assolutamente intima.